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Il punto sugli edifici alti all’annuale appuntamento promosso da Guamari

Sintesi di artigianato e industria, la sfida dei tall buildings made by italians

di Chiara Brivio | pubblicato: 09/07/2021
«L’attacco a terra delle torri può diventare un momento di grandi capacità di trasformazione, è per questo che parliamo di rigenerazione urbana»
Antonio Citterio
Sintesi di artigianato e industria, la sfida dei tall buildings made by italians
«L’attacco a terra delle torri può diventare un momento di grandi capacità di trasformazione, è per questo che parliamo di rigenerazione urbana»
Antonio Citterio

Sostenibilità, efficienza energetica e leva per la rigenerazione urbana: sono questi i tre elementi che caratterizzano gli edifici alti in tutto il mondo. Architetture che si trovano in un momento di grande trasformazione, dovuta anche alle esigenze sanitarie e sociali emerse durante la pandemia, e che necessiteranno inevitabilmente di un ripensamento generali degli spazi, in modo particolare per quelle dedicate agli uffici.

E lo skyline di Milano, già intervallato dalle torri di City Life da una parte, e dalle nuove costruzioni di Porta Nuova dall’altra, oltre al Pirellone e alla iconica Torre Velasca, non fa eccezioni, come è emerso dalla decima edizione di Tall Buildings tenutasi recentemente alla Triennale, dove Aldo Norsa ha illustrato i nuovi progetti in corso. Il capoluogo lombardo, anche se duramente colpito dal Covid, non ha perso quindi quell’entusiasmo per lo slancio verso l’alto. Basti pensare al corridoio lungo Melchiorre Goia e all’adiacente area di Porta Nuova, con gli interventi di Gioia 20, firmato Antonio Citterio Patricia Viel (ACPV), Pirelli 35 di Park con Snøhetta, Gioia 22 dello Studio Pelli Clarke Pelli Architects, la sede Unipol di Mario Cucinella Architects (il tutto in un’area quasi interamente sviluppata da Coima, ai quali si aggiungerà Pirelli 39 di Diller Scofidio + Renfro con Stefano Boeri Architetti). Allo stesso tempo, sono molteplici gli interrogativi che emergono sulla reale capacità di questi building di contribuire ad una vera rigenerazione urbana, e di inserirsi armonicamente nel tessuto urbano della città. Un punto toccato anche dal presidente dell’Ordine degli Architetti di Milano, Paolo Mazzoleni, intervento all’evento. «Servono grande laicità e lucidità in questo momento. Credo che siano da superare quegli atteggiamenti ancora radicati in città, di un conservatorismo stile Nimby, not in my backyard (non nel mio giardino) – ha detto il presidente, che ha aggiunto – tuttavia, non bisogna nemmeno appiattirsi su un provinciale entusiasmo verso qualsiasi cosa che sia più alta delle altre». Torri sì, quindi, ma rispettando sempre criteri di vivibilità e del contesto in cui si inseriscono. E in questo senso, la sostenibilità e la riduzione dell’impatto ambientale, ottenuti tramite l’utilizzo di nuove tecnologie, strumenti e materiali, potranno essere un punto di forza di queste costruzioni, come nel caso della nuova sede di Unipol firmata da Mario Cucinella.

In tema di rigenerazione invece, Antonio Citterio di ACPV – autore del progetto per la Torre Faro, nuova sede di A2A che sorgerà a Porta Romana – ha spiegato come questo intervento risponda anche alle richieste fatte dall’amministrazione pubblica di creare nuovi spazi per la città. «È come se una torre, un grattacielo, che sembra quasi staccato dal resto della città, improvvisamente potesse diventare un’occasione per creare una nuova parte di questa, con pedonalità per il cittadino, percorsi a 30 all’ora, nuove piazze. L’attacco a terra delle torri può diventare un momento di grandi capacità di trasformazione, è per questo che parliamo di rigenerazione urbana».

«Milano è una città che sa accogliere i tall building, in una varietà di processi insediativi – ha aggiunto su questo tema Ezio Micelli, professore allo Iuav di Venezia e parte del team guidato da Oma e Laboratorio Permanente che ha vinto il concorso per il masterplan di Scalo Farini, illustrato all’evento –. Per quel concorso, è stata scelta una progettualità di carattere intermedio, per quella che abbiamo immaginato essere una costruzione collettiva da parte di una pluralità di developer che non solo permette di dividerla, ma determina anche una serie di varietà insediative che ci sembrava essere un elemento caratterizzante».

Ma ci sarà spazio per gli architetti italiani in questo nuovo contesto, e quale sarà il futuro della professione in questo momento di grandi trasformazioni? «Sono circa una decina gli architetti italiani che si sono cimentati a progettare e realizzare grattacieli, rispetto ad almeno altrettanti studi stranieri – ha sottolineato Aldo Norsa, a proposito di un certo atteggiamento di ‘esterofilia’ che si riscontra – ma i nostri sono considerati meno importanti. C’è anche un certo scollamento tra il mondo dell’accademia italiana, un po’ nostalgica forse del pauperismo, e dall’altra il mondo delle costruzioni, dove le società di ingegneria e architettura italiane sono cresciute, hanno investito, si sono strutturate imprenditorialmente». Parole alle quali fanno eco quelle del presidente Mazzoleni «la nostra realtà professionale nei prossimi anni sarà molto mista, con l’artigianalità alla quale sempre più si affiancherà una maggiore industria del progetto. La parte che al momento meno conosciamo è quella delle logiche industriali, che hanno un forte protagonismo laddove nasce la sfida internazionale. Su questo tema Milano ha una responsabilità enorme, siamo la città laboratorio, i problemi che noi poniamo non ci sono o non sono ancora stati compresi nel resto del paese». E sugli architetti italiani, «sappiamo intervenire in città consolidate come altri non sanno fare, anche all’estero. Aderisco quindi all’appello di dare spazio ai progettisti del nostro Paese».

Immagine di copertina: Milano ©Simone Daino via Unsplash

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Tag: città; real estate; rigenerazione urbana
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