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Dallo stage nel 1975 alla Gregotti Associati alla lettura dei saggi scritti negli ultimi anni, fino all’ultimo incontro qualche mese fa

Un saluto a Vittorio Gregotti. Cino Zucchi ricorda il suo “mestiere impaziente”

di Cino Zucchi (testo raccolto da Paola Pierotti) | pubblicato: 15/03/2020
"Molte persone come me e mia moglie Francesca che hanno avuto la fortuna di lavorare insieme a Vittorio porteranno con loro un frammento della sua voglia di capire e dare forma ai luoghi che ospitano la nostra esistenza, e che ci sopravvivono come “parole di pietra"
Un saluto a Vittorio Gregotti. Cino Zucchi ricorda il suo “mestiere impaziente”
"Molte persone come me e mia moglie Francesca che hanno avuto la fortuna di lavorare insieme a Vittorio porteranno con loro un frammento della sua voglia di capire e dare forma ai luoghi che ospitano la nostra esistenza, e che ci sopravvivono come “parole di pietra"

Nel 1975, da stagista ancora diciannovenne, essere preso alla Gregotti Associati anche solo per tirare righe con il Rapidograph fu per me davvero emozionante. I grandi archi in mattoni, le vetrate sul giardino e il soppalco in putrelle a vista dello studio di via Bandello facevano da sfondo amato al lavoro di persone diverse e interessanti, tenute insieme da una curiosità e un impegno che Gregotti riusciva a indirizzare su obiettivi sempre diversi con la sua capacità di creare un “campo gravitazionale”. Ogni tanto meteoriti e comete dalle orbite eccentriche come Pierluigi Nicolin, Italo Rota, Franco Purini, Emilio Battisti passavano a salutarci e conversare, e accoglievamo ogni settimana studenti e architetti stranieri di passaggio da Milano.

In confronto ad altri “maître à penser” della cultura architettonica come Aldo Rossi e Guido Canella, Gregotti appariva ai miei occhi animato da un pensiero più inquieto, curioso, dialogante, capace di miscelare la tradizione del pensiero razionalista con un empirismo di matrice anglosassone o scandinava. Questo atteggiamento si poteva cogliere in maniera indiretta sull’architettura prodotta dallo studio, meno indirizzata e “monolitica” – sia dal punto di vista strutturale che da quello figurativo – di quella che anni più tardi il grande pubblico assocerà alla figura di Gregotti. Una domenica mi toccò tradurre dall’italiano all’inglese un saggio su di lui nella prosa forbita di Sergio Crotti: ne ricordo ancora il titolo parafrasato da Le Corbusier: “Il mestiere impaziente”, definizione perfetta del lavoro di Vittorio.

Parlare con Vittorio era un vero piacere: la sua curiosità intellettuale, la vivacità del suo eloquio e la sua misurata ironia erano capaci di generare allo stesso tempo carisma e confidenza, rispetto e condivisione. Egli ha sempre appartenuto alla schiera delle persone convinte che dovesse esistere qualche forma di relazione strutturale tra pensiero astratto, azione politica, e produzione artistica o progettuale; il suo modo di vedere le cose era “tardo-moderno” - seppur in una forma critica e inquieta - piuttosto che “post-moderno”.

La mia esperienza lavorativa con lui fu tutto sommato breve, ma il rapporto di stima duraturo e in continua evoluzione. Ogni anno aspettavo i numeri monografici di Casabella con ansia: essi affrontavano temi sempre nuovi e nuovi modi di guardare alle cose, diventando il crocevia di un dibattito europeo e internazionale di grande intensità.

Gli articoli di giornale e i saggi da lui scritti negli ultimi quindici anni hanno cercato di metterci in guardia dall’uso tutto strumentale e sovrastrutturale che il sistema immobiliare fa di architetture ad alto tasso iconico e spettacolare, e questo è forse una delle cause principali di una sua progressiva distanza dalla cronaca contemporanea.

Sono andato a trovarlo solo qualche mese fa per trovare insieme gli argomenti di una conversazione tra me e lui organizzata dalla Triennale. La sua condizione fisica già provata non riusciva a sedare la velocità e la lucidità della sua testa pensante, capace di entusiasmarsi a partire da uno spunto fecondo del discorso, da una traccia da inseguire e collocare in una struttura in continuo movimento.

Javier Marías sostiene che quando una persona muore, scompare con lei la “memoria tutta intera, un tessuto discontinuo e variabile costellato di strappi e allo stesso tempo fabbricato con pazienza e cura”. L’insieme delle percezioni e delle esperienze che danno identità e consistenza a una persona non è riproducibile. Tuttavia, molte persone come me e mia moglie Francesca che hanno avuto la fortuna di lavorare insieme a Vittorio porteranno con loro un frammento della sua voglia di capire e dare forma ai luoghi che ospitano la nostra esistenza, e che ci sopravvivono come “parole di pietra”.

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