Nella pubblicazione curata da Pietro Mezzi, centrale la questione dell’adattamento

Città olistiche per il post-pandemia: la resilienza e il ruolo delle Pa

di Chiara Brivio | pubblicato: 09/12/2020
«Serve affermare che la resilienza, per la sua trasversalità, ha una funzione di abilitatore all’interno delle amministrazioni locali, per un ripensamento complessivo della città e del suo funzionamento»
Piero Pelizzaro
Città olistiche per il post-pandemia: la resilienza e il ruolo delle Pa
«Serve affermare che la resilienza, per la sua trasversalità, ha una funzione di abilitatore all’interno delle amministrazioni locali, per un ripensamento complessivo della città e del suo funzionamento»
Piero Pelizzaro

Se è vero che le città possono essere equiparate a degli ecosistemi biologici, allora, come qualsiasi organismo vivente, possono trovare strategie di sopravvivenza e di adattamento, anche e soprattutto nei momenti di grande crisi come quelli che stiamo vivendo. Vere entità resilienti, come quelle che Pietro Mezzi racconta nel suo nuovo volume Fare resilienza. Progetti per adattare città e comunità agli shock climatici e sociali, in Italia e nel mondo (160 pagine, 14 euro, Altreconomia), che raccoglie esempi di città e comunità che hanno messo in campo strategie concrete per contrastare la crisi climatica, quella sociale, e ora anche pandemica.

«Resilienza è definita spesso come la capacità di un sistema - un organismo umano, una città, una comunità, un’azienda, un sistema ecologico o socio-economico - di adattarsi, ripristinare la propria funzionalità e innovarsi dopo avere subìto un impatto esterno, uno shock o uno stress, che questo sia di origine naturale o antropica» si legge nell’introduzione del libro, e gli sforzi e le politiche dei centri urbani descritti nel testo, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, vanno in questa direzione.

Quello di Mezzi è un saggio attuale, ricco di dati, interviste ed esperienze, che si inserisce nella discussione in corso sul ripensare le città, i loro quartieri (che siano a 15 o 20 minuti), il verde e gli spazi pubblici, ma anche, in generale, sull’abitare del futuro. Se è vero che tutti cercheremo case con metrature più ampie, giardino e tranquillità fuori dai centri urbani, dall’altra le città non moriranno, ma dovranno necessariamente reinventarsi. E allora perché non farlo in chiave green e di sostenibilità? In Italia ci sono già alcuni esempi di amministratori locali impegnati sul fronte del contrasto al cambiamento climatico e pandemico con idee progettuali e scelte concrete; tra questi l’autore annovera l’ambizioso piano Forestami di Milano (tre milioni di alberi di alberi piantati a Milano e nei 133 comuni dell’area metropolitana entro il 2030), l’esperimento di Urban Jungle a Prato, ma anche Torino e Mantova. Nella vasta casistica estera presa in esame da Mezzi, si va dallo Sponge Garden di Rotterdam al parcheggio Pop-up di New York, passando per il visionario progetto di Oceanix City, sviluppato da Bjarke Ingels Group.

Esempi che fanno comprendere, come sottolinea Stefano Caserini, docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano, quanto sarà cruciale il ruolo dei centri urbani nella battaglia ecologica del futuro. «L’urgenza della crisi climatica è sempre più evidente – scrive – e suffragata dai segni sempre più tangibili degli effetti del surriscaldamento globale. Serve pertanto un cambio di passo nelle azioni delle città contro il riscaldamento globale». È per questo che anche secondo Mezzi, che sa anche cosa significhi l’amministrazione pubblica (oltre che architetto e giornalista, è consigliere delegato alla Pianificazione territoriale e all’ambiente della Città Metropolitana di Milano), per portare avanti tali progetti la mano del pubblico sarà fondamentale. E inserisce questa sua considerazione in una “triade” di effetti che la pandemia ha avuto sulla collettività. Primo, gli italiani si sono dimostrati una comunità resiliente di fronte all’emergenza, secondo, si è acquisita una certa «consapevolezza circa le fragilità individuali e collettive», e, terzo, «l’emergere di una responsabilizzazione generale e la percezione chiara che solo una risposta collettiva può risollevare le sorti di una comunità ferita – afferma –. E insieme a questa responsabilizzazione, altrettanto forte, la consapevolezza dell’importanza e della presenza della mano pubblica e dello Stato». La pensa così anche Piero Pelizzaro, il “chief resilent officer” del Comune di Milano, primo e al momento unico con questo incarico in Italia, già autore con lo stesso Mezzi di un primo libro dedicato alla resilienza e pubblicato nel 2016, «Serve affermare che la resilienza – scrive nel suo contributo –, per la sua trasversalità, ha una funzione di abilitatore all’interno delle amministrazioni locali, per un ripensamento complessivo della città e del suo funzionamento. Poi, per migliorare servono team multidisciplinari. E poi occorre maturare una capacità di mediazione e di diplomazia indispensabili per agire all’interno di una struttura fortemente gerarchizzata come quella che contraddistingue gli enti locali».

Nel suo essere acceleratore di processi, continua poi Mezzi, la pandemia forse accelererà anche la consapevolezza che il cambiamento climatico è un problema attuale, giunto quasi a un punto di non ritorno, e che per questo va contrastato rapidamente. Come, ci si chiede? C’è un modo in cui, concretamente, l’architettura possa fare qualcosa? E questa domanda, insieme a tante altre, l'autore le gira ad architetti e urbanisti impegnati nella sfida di progettare case, città, spazi pubblici nel nome della sostenibilità. Da Mario Cucinella ad Alfonso Femia, con Michele Rossi, Andrea Schiattarella e Gino Garbellini, nomi noti nel panorama italiano offrono il loro punto di vista (e non senza opinioni discordanti), sulle questioni della sostenibilità, sulla scala su cui operare e sul cambio radicale di cui avrà bisogno la cultura architettonica. Ma potrà l’architettura essere green e generare, allo stesso tempo, profitto? Il nodo rimane. Guardando ai segnali che arrivano dal Regno Unito, la risposta non sembra essere positiva. È infatti di questi giorni la notizia che due dei maggiori studi al mondo con base a Londra, Zaha Hadid Architects e Foster + Partners, hanno lasciato la compagine di UK Architects Declare Climate and Biodiversity Emergency, dei quali erano stati tra i primi firmatari, in disaccordo sulle misure antinquinamento del settore dell’aviazione.

Ma forse sarà la multidisciplinarietà a venire in aiuto. Stig Lennart Andersson, fondatore e direttore creativo dello studio internazionale SLA, con sedi a Copenaghen, Aarhus e Oslo, punta su questa strategia. «Abbiamo sociologi, antropologi, giardinieri, biologi, architetti del paesaggio, architetti, pianificatori, comunicatori e altri esperti che lavorano con noi – risponde Andersson all’intervista di Mezzi –. Solo così possiamo creare progetti di città olistiche basate sulla natura e pronte per il nuovo clima».

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Tag: città
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